L’ANSIA DA SEPARAZIONE, BUONE NOTIZIE E CATTIVE NOTIZE – di Giulia Bertotto

Postato il Aggiornato il

MilesCamperPer incontrare questo argomento è indispensabile innanzitutto saper riconoscere come l’ansia da separazione si manifesta nel cane. Dobbiamo avere ben chiara la differenza tra il mondo della paura e quello dell’ansia: “quello della paura, che può essere positivo ed è fatto di certezze; quello dell’ansia, negativo, pieno di incertezze. La paura è costruttiva perché previene gli incidenti (è utile che il cane abbia paura delle auto in corsa); l’ansia è solo un limite spiacevole (il cane si blocca anche se non ci sono auto in arrivo perché ne è talmente terrorizzato che la sua mente rimane nello stato di ansia anche quando il pericolo è cessato)”[1]

Il primo livello di ansia è caratterizzato da vocalizzi, abbaio indiscriminato e ululato straziante.

Il secondo livello si presenta con la distruzione di oggetti, nel terzo si aggiunge il tentativo di fuga con conseguenze distruttive su porte e recinti. In questo caso occorre valutare se l’impulso alla fuga è legato a un bisogno di evasione ed esplorazione causato dalla noia oppure se è il desiderio di ricongiungersi con il proprietario. Al quarto abbiamo la manifestazione più grave di ansia da separazione, cioè l’autolesionismo. Il cane arriva a procurarsi delle ferite mordendosi. L’aspetto più serio di questa sintomatologia è che il cane in nostra presenza sembra tranquillo, mentre in realtà il suo malessere è ormai talmente radicato da aver rinunciato ad esibire la sua vitalità ed essa sembra riversarsi tutta contro di lui.

 

In natura, se un cane adulto mostra una paura immotivata il branco non cerca di consolarlo, ma tende ad isolarlo, non può infatti permettere all’intero nucleo famigliare di creare una situazione di stress collettivo infondato, che potrebbe anche costare la vita. In natura ciò che non rientra nell’economia della sopravvivenza fa automaticamente già parte del rischio di soccombere.

Solo i cuccioli vengono rassicurati nel branco, quindi rassicurare un cane adulto equivale a dirgli «sei un cucciolo e hai bisogno di me», e non «sei adulto e puoi cavartela, sii sicuro di te».

 

La “cattiva” notizia.

Ipotizziamo un qualsiasi mercoledì di lavoro; con la preoccupazione di lasciare il nostro cane solo al mattino, alimentiamo la sua ansia da separazione, e con il senso di colpa al rientro nutriamo l’iperattaccamento e la dipendenza. Le feste del nostro compagno non sono solo una manifestazione di gioia, ma anche lo sfogo di un straripante tensione, attesa, frustrazione da inattività che il cane ha patito durante la giornata in nostra assenza. E’ proprio rispondendo alla smania febbrile del cane, che montiamo in lui il messaggio che noi vogliamo che sia così agitato al nostro ritorno[2].

Trattiamo il nostro cane come un cucciolo per tutta la sua vita, infondendo in lui uno stato di agitazione cronica a cui il cane risponde mettendosi in una posizione gerarchica ed emotiva di non autosufficienza come quella del cucciolo. L’adozione di un cane spesso ci porta ad entrare in contatto con il nostro trauma originale, anche non “eclatante”, come ad esempio un’educazione emotiva confusa. Cerchiamo di sedare il nostro “bambino interiore” nel legame simbiotico con il cane. La stessa scelta di adottare un animale domestico può fondarsi anche su questa motivazione compensativa, che come molte altre è comunque un adattamento utile da non demonizzare.

Riversiamo sul cane aspettative affettive mai realizzate e separarci ridesta in noi ferite di abbandono che in ambito sociale e professionale si possono tradurre in senso di inadeguatezza e angoscia di realizzazione. Disperati per il nostro abbandono o indaffarati nel cercare di non sentirlo, cerchiamo di scaricare la nostra tensione nell’affetto così pieno e gratificante del cane. Anche quando ci preoccupiamo per il nostro compagno dal naso umido, senza saperlo stiamo dando sfogo alle nostre ansie, ma così facendo inneschiamo con lui una dinamica di dipendenza, che continuamente intratteniamo con gli altri, con le nostre convinzioni, con le nostre compensazioni. Il cane si carica di tutto il peso narcisistico di avere una creatura adorante, che ci riempie di fierezza e scalda di affetto, ma che ci mette anche in contraddizione con noi stessi, così lusingati e nutriti dalle attenzioni dal cane, tuttavia in preda a sensi di colpa nel lasciarlo o non portarlo abbastanza a scorrazzare.

“Tutti gli animali sanno di cosa hanno bisogno, tranne l’uomo”; così esordiva Plinio il vecchio, filosofo e naturalista romano.

Il filosofo se ne era accorto osservando gli animali, l’educatore cinofilo…anche.

 

La buona notizia.

Uno degli aspetti che più colpisce, se si legge qualche testo di etologia comparata, è che oltre a noi esseri umani, solo gli animali in cattività, e per lo più i mammiferi superiori, (in quanto dotati di abilità cognitive e facoltà emotive più sofisticate e complesse) si spingono a farsi del male, a procurarsi da sé stessi e volontariamente (quindi non come nel secondo livello suddetto) delle lesioni per esprimere la loro afflizione. No, non è ancora questa la buona notizia.

Questi animali sembrano fare qualcosa che sovverte tutto ciò che pensiamo della natura e del suo armonioso funzionamento, qualcosa che trasgredisce radicalmente l’idea di linearità istintuale del comportamento animale. Questi animali compiono una svolta comportamentale che li vede capaci di fare qualcosa che sembra andare contro il loro interesse vitale. Sembra, perché lo scopo delle ferite autoprocurate resta quello di sfogare la frustrazione, al fine di autoregolare l’omeostasi psichica ed emotiva. Dunque, forse, nessuna specie può procurarsi un danno che sia fine a se stesso, ma anche un apparente auto sabotaggio ha come obiettivo ultimo l’esprimersi di un’energia rimasta imbrigliata, di una vitalità soffocata. Ecco la buona notizia!

 

Il primo principio della termodinamica ci insegna che nessuna energia può essere distrutta ma solo trasformata, e questo vale innanzitutto per l’energia vitale, la quale quando viene ostacolata, da energia fluida si tramuta in energia “corazzata”; il medico e psicologo austriaco Whilelm Reich scriveva che ogni distruttività non è che una vitalità impedita ed “è lo sforzo di esprimersi in modo naturale e di raggiungere la loro meta che trasforma tutti gli impulsi essenziali biologici in distruttività”[3] Tutti gli impulsi sono dunque essenzialmente vitali, ed è l’ostacolo ad esprimerli che li rende distruttivi. Questa concezione viene chiamata funzionalismo.

Ogni volta che la Vita non può realizzarsi “genuinamente” attraverso le sue creature può doverlo fare implicando la sofferenza di queste ultime per esprimere Se stessa. Ma il suo scopo ultimo resta sempre quello di darsi una direzione più funzionale, non avrà mai l’obiettivo finale di ritorcersi a danno di Sé.

 

Anche il giovane Agostino d’Ippona argomentava in termini teologici l’impossibilità che esista una forza maligna originaria ed autonoma dal bene ed esaltava lo scopo provvidenziale e trionfante di ogni contrasto tra gli esseri umani e di ogni lotta interiore con sé stessi: la concordia in Dio. Agostino parlava della non sostanzialità del male, della sua natura esclusivamente derivata. Una concezione così forte non vuole negare il dolore e le crudeltà del mondo, ma al contrario comprendere perché ci restiamo così attaccati.

Comprendere quale motivo sopravvivenziale spinge un cane a procurarsi ferite, senza liquidare questo comportamento nella “follia”, nella perdita di senso e di scopo, ci porta a comprendere qualcosa di luminoso e rivoluzionario su ciò che pensiamo del male.

“Non tutti i mali vengono per nuocere” recita il proverbio, e forse “nessun male viene per nuocere” potrebbe esultare il filosofo che osservi il cane e la natura

[1] M. Caricato, Non mi piace star solo come prevenire e affrontare l’ansia da separazione nel nostro cane, Infinito edizioni, Monocalzati (Av) 2015, p. 24-25.

[2] Ivi p. 16.

[3] W. Reich, Etere, Dio e diavolo, Sugarco Carnago (Va) 1974, p.84.

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